Caputo. Testo critico.
Di Guido Giuffrè
Di quinte e fondali nelle immagini di Caputo scriveva già, or è qualche anno, Fortunato Bellonzi, e della “prospettiva tridimensionale rigorosa”. Prima di darsi alla pittura, o ai primi passi di questa, Caputo studiò architettura, e da scenografo – allora e più tardi – partecipò anche al teatro; sì che i riferimenti di Bellonzi oltre che nelle immagini hanno riscontro in dati biografici puntuali. Eppure sarebbe difficile dire se quegli accenti della pittura di Caputo derivano dalle precedenti scelte di studio e di attività, o se sono queste ulti-me motivate da disposizioni preesistenti, sbocciate con la coscienza stessa. L’ipotesi più probabile è la seconda. Il mondo creato da queste immagini è così vero, così antico, così saldo nelle sue strutture da mostrarsi proprio come proiezione della coscienza piuttosto che come scelta intellettuale. E se si segue il percorso di Caputo, anche il più recente, ad esempio nella scomparsa delle figure che magari ridotte a sagome larvali, a fantasmi senza corpo, abitavano le stanze deserte di asettici parallelepipedi, meglio apparirà come l’artista in quinte e fondali vede articolarsi il suo mondo più autentico e profondo, senza comparse, ma con l’unico invisibile protagonista del suo animo inquieto. Che l’inquietudine domini queste immagini è evidente al primo sguardo. Ed ecco un’altra analogia tra la pittura e la vita – erratica, curiosa, inappagata – di Caputo. Che cosa egli cerchi nei viaggi della ,Svezia all’Australia, dagli Stati Uniti ai paesi dell’Est europeo non è piede dire, e forse, al di là della smania di altro e di oltre non lo sa lui stesso. Ensor raccoglieva scheletri nelle soffitte della sua vecchia Ostenda, Munch inseguiva gli incubi dell’animo oppresso per tutta l’Europa, Renoir gioiva della più ampia varietà nella domestica Batignolles, Gauguin incalzava le sue ansie fino alle remote Marchesi. Gli uni e gli altri, come, in fondo, ciascuno, non avevano altro peregrinare che per i sentieri oscuri o assolati della propria coscienza. Dalle Piramidi al Grande Canyon Caputo non ha riportato che i mattoni squadrati e corrosi delle fabbriche disattivate del quartiere Testaccio, dove, quasi all’interno di una di esse, egli ha studio e lavora; ma dai viaggi nei labirinti del proprio io egli trae la desolata solitudine che attraversa senza eco queste architetture lunari. La pittura in queste tele è volutamente grama; la tempera alla caseina finge la levità dell’acquarello ma non ne possiede l’ariosità né la liquida freschezza, può rassodare la campitura ma non ha la profondità e la ricchezza di umori dell’olio.
Caputo la preferisce non a caso; egli vuole questa resa arida e pericolante in sintonia con le calcinose strutture dalla linfa rasciugata da tempo immemorabile: bene al di là del secolo attribuibile agli archi, alle ciminiere, alle rugginose lamiere che spartiscono gli spazi in latente ma ferrea simmetria. La scansione dello spazio nell’opera di Caputo è portante; essa ha il ritmo e i contrappunti, le pause, le cesure e i raccordi della scala musicale. Il basso continuo degli oggetti sul davanzale riscontra la serie delle finestre, e la vera architettura consiste nel rispondersi dei due ritmi. L’andamento orizzontale è sorretto da quello verticale: l’assoluto perpendicolare slitta sulla fugacità di una diagonale. ponteggi, finestre, cortili muraglioni costituiscono la muta immobilità, la durevolezza, per quanto minata e già ,scaduta; ma all’interno abitano personaggi più animati, colorati, articolati. Cilindri, ciotole, bacchette, strumenti, utensili, piante esotiche. Si può indagare la stranezza di questi oggetti, interrogarsi sulla imprecisata funzione, su quale uso, e chi mai, potrebbe farne, sulla natura delle piante e sul loro crescere senz’aria e in una luce che non riscalda. Ma la prima risposta viene dall’assorto stupore metafisico, quello generico e talora quello puntualmente dechirichiano, e subito dopo, ma più mediata, quasi soltanto un’eco, dall’incongruità surrealista. Metafisici non sono soltanto gli oggetti, i bastoncini a strisce colorate o i solidi dalle molte facce, bensì anche gli spazi esterni, le prospettive, le solitudini, e l’ascendenza quattrocentesca che giunge al diapason spaziale del pendolo immobile. Da Piero a Mondrian, da De Chirico a Dalì o Ernst, i riferimenti culturali non sono di poco conto, ma nei confronti di ciascuno è quel tanto di sfalsamento, di diversità o novità che di Caputo dà la schietta e si direbbe naturale autenticità. Tant’è che quei riferimenti sono una sorta di seconda istanza, quando il riguardante cerca appoggio alla malia che dalle immagini si leva come il muto canto della sirena. Ed è in questa malia, nell’incantamento ma anche nel sottile disagio, nella ritrosia inquieta che frena l’abbandono e reca il sogno alla soglia dell’incubo – è in questa somma di sentimenti contrastanti la poetica originale di Caputo. Nell’interno affollato il disagio cresce. La vivacità dei colori non è mai calda; tutto è immobile ma più di un equilibrio risulta precario, le piante vivono artificialmente come in un laboratorio di fantascienza, o in altri laboratori che la dimensione della fantasia accantonano pericolosamente; la casualità di oggetti innocui, persino in un’ambigua venatura giocosa, sfiora la presenza di altri oggetti, altrettanto casuali ma meno innocui, sì che in questi silenti luoghi di sgombero, tra gli echi spenti, può celarsi l’urlo e lo strazio del torturato. Più di un chiodo perfora ciò che non dovrebbe, o ago o vite, quasi gli oggetti stessi avessero svolto una loro guerra quieta e feroce. Se lo sguardo si spinge oltre le soglie e i davanzali, aggira la lebbra delle imbullonate putrelle salde e decrepite, le assenze esterne equivalgono le interne presenze. Cortili deserti, porte e finestre chiuse, simmetrie assorte ma anche crudeli nella fissità impietosa; contro cieli imbellettati e irrespirabili i gendarmi delle ciminiere vegliano su una città di morti. Caputo non cerca cattivanti succhi pittorici, non eleganze formali e neppure la salvaguardia di una “qualità” che lo garantisca pregiudizialmente. Il suo lento procedere è a tutta evidenza dominato dall’urgenza di tessere la trama del racconto, di schierare i suoi personaggi sullo scacchiere di una battaglia che non sarà combattuta, ma di cui egli sente e noi sentiamo una sorta di perenne imminenza, o di eco raggelata, poi che in questo tempo immobile il prima e il poi si fondono in un eterno presente. Egli narra compitando .con esecuzione insieme perentoria e sommaria, esatta e corsiva; si direbbe con lucida e agghiacciante razionalità. Salvo che proprio in certi ampi spazi esterni, sulle sterminate teorie di mattoni che si allungano oltre confini del quadro, un riverbero dorato sembra profilare all’estremo orizzonte un filo sottile di nostalgia, quasi appena un sospetto, appena l’eco di un inavvertito trasalimento. Che basta alla vita turbata fascinosa e struggente di queste immagini.
Guido Giuffrè
Roma – Gennaio 1983