ToninoCaputoArt

Testo critico

Di Marcello Venturoli

Tonino Caputo. Ed. Galleria Dimensione

Tra gli artisti che operano nel gusto della « nuova figurazione » da me incontrati negli ultimi anni, Antonio Caputo, quarantenne, spirito curioso e attento, viaggiatore fra Lecce, Roma e Milano, è uno dei più ricchi e autonomi. Tra i suoi pregi è quello della riconoscibilità immediata, in questa fase finale della sua prima seria fatica; e non già perché i suoi modi stilistici siano privi di echi, ma perché questi echi egli sa ricondurre alla ispirazione, in una sorta di lirico ecclettismo. Caputo è uno di quei pittori che si prestano assai bene ad una analisi critica, in chiave di lettura minuta, e che in questa chiave è più compreso e apprezzato.

Così comincerò subito ad esaminare taluni suoi quadri, andando dal particolare al generale, con la sicurezza di non compiere un errore di metodo. Ecco dunque « Donna con elefante ». Si nota nel quadro una ambientazione che va dal De Chirico metafisico al Liberty di Cremonini, ma se del secondo resta la concretezza vitalistica, l’attimo fuggente della cosa vista, del primo, l’impianto astratto, di quelle linee prospettiche, tattili, in segni, tiranti, diagonali, pedane, che sono il rituale o la macchina scenografica della metafisica. Il nuovo e il piacevole di questo artista è l’equidistanza fra il gusto della «nuova figurazione» di protesta e il gusto di un neo avanguardismo figurativo, pieno di raffinatezza e di intelligenza, dei Guido Biasi per esempio, dei De Filippi, tra sagome e proiezioni, tra immagine fotografica filtrata in pittorici setacci e oblò di segni di nostalgia divisionista.

E dirò subito della particolare tessitura fra grafia e cromia del Nostro, che viene in evidenza in molte sue opere, come quella dell’albero torchiato, oblò liberty con ombre reti colate, zone di finti collages sovrapposte, in un fare sottilissimo, appunto, di grafico che dipinge. Anche in «Costruirsi un oblò per una possibile, magnifica evasione» si festeggiano le stesse doti portate dai medesimi problemi. Il titolo del quadro, benché forse un po’ letterario, è indicativo. Perché «magnifica» l’evasione? Perché l’evasione dell’artista è gioiosa partecipazione, non è fuga dall’impegno della vita; potrei dire che egli consideri la pittura come una vita più intensa, più felice e più ricca d’intelligenza, dove ogni vuoto e incognita sono da colmare e da capire con una risposta mezzo ironica e mezzo favolistica.

Tabelloni, insegne geometriche, frecce totemiche, oggettuate di un color rosolio, idoli nel prisma, dove le sfaccettature sono d’aria e una gabbia l’insieme, dove la donna china il capo entro un… corsivo di se stessa, quasi che pelle e luce, rosati di nuca e di fianchi fossero semplici impronte grafiche. E che tessitura di geometrie con quei refi metallici, l’oblò, la scatola rossa, la balaustrata. E che teneri violetti e rosa e azzurri nel cantabile così incapsulato!

Ma non si tratta, come forse parrebbe alla mia lettura, di una rinfusa vitalistica, di tipo romantico o dissociato. Le opere di Caputo sono abbastanza univocamente racconti, anche se vestiti di complicazioni. Si veda a questo proposito tutta una serie di opere, « Probabile casa museo di Barba- blù », « Concetto imposto di libero arbitrio », « Prodotto esportazione dal giardino delle Esperidi » ed altri. Nel primo citato si tratta in sostanza di una natura morta che viene proiettata nel clima di una favola drammatica, quasi di museo degli orrori. L’innocente ragazzino col grembiule può essere lo stesso Barbablù infante o un estraneo al museo — ma in questa polivalenza della « scena » è uno dei pregi dell’artista. E non dispiace la compitazione quasi di figure da sillabario della coltelleria e martelleria, tutto l’arsenale da delitto, ingabbiato in fili di alluminio, anche essi proiezioni o linee portanti di spazi, adunate di oggetti, a farsi simbolo. E suggestivo è quel camminare della sagometta nella scansione dei neri crociati delle sbarre alla finestra. E qui sì esprime ancora quel suo disegno dipinto, in quel disegnare e dipingere l’ambiente, mura, mattonati, pavimenti, anche qui di un De Chirico; e invano troveresti solo colore e solo segno, pur essendo questo quadro un quadro dove le cromie squillanti, l’iride distesa, si depauperano dentro il segno. In « Concetto imposto di libero arbitrio » si assiste ad un’altra « storia ». Continua la scenografia dechirichiana con le sue proiezioni di linee prospettiche astratte, La scena sul « pancoscenico » è popolata da uno strano viandante, curvo sotto un sacco, in bianco e nero, come una pietra antropomorfica colpita dalla luce. E non ci domandiamo perché mai l’artista apra e chiuda tanti soppalchi, passerelle, finestre, nella policromia tenera dei rosa e degli aranci o delle nuvolette sull’azzurro Van Gogh e i tre spaghi tricolori, fatti dai fumi dei velivoli d’acrobazia! Fa piacere avvertire certi echi, senza che questi prevarichino sulla natura di Antonio Caputo: i grigi petrosi, le nature morte oggettuate di Magritte e, pure, fra i giovani suoi coevi, quel popolareggiare quasi di tarocco, tutto disegnato con estro, di un Carlo Hollesch della prima maniera. Certo questa « merce per l’esportazione » già confezionata entro lo scatolo scarlatto e il tutto aperto come in un grosso altare, e l’altare divenuto architettura di un interno misterioso, sono mezzi di vivida suggestione. Tutti ingredienti che riuscirebbero finanche noiosi, se non fossero fusi insieme dalla fantasia.

E che dire di « Dogma dell’infallibilità del bersaglio » quel delizioso « pittoresco della scienza », forse il quadro più vicino alle officine di proiezioni, alle equazioni di iride con l’immagine reale, anzi ottica, nel rapporto — anche — fra pittura e tecnologia, di Guido Biasi, delle cui tabelle, dei cui numerarii e «mire», è qui un’eco più esplicita? Le « favole » di Caputo toccano temi di scienza e temi ecologici, come « Miniera di clorofilla »: questa specie di periscopio o trivellatura di habitat verde, non il simbolo dell’albero, ma uno spazio ecologico vero e proprio, contrassegnato perfino dalla misura umana dei due personaggi in cappello e tuta gialla, è felice, perché si apre da tutta una costrizione geometrico-plastico-grafico-liberty, tipica dell’artista.

Ed eccoci, un po’ nello stesso tema, a « Vivisezione di parco nazionale »; anche qui complicazioni fra sintesi di « decorazioni » astratte ed episodi minuti, quasi aneddoto, un macchinario che è insieme da bigliardino di bar, con tabelle arancio e scritte rosse, frecce è da fantascienza spaziale, per quella cabina di pilotaggio da lontano; ma anche qui la felicità del quadro sta nel modo convincente del messaggio, questo sorriso, questa favola, come se il pericolo della fine del verde non fosse poi così grave, come se la natura dovesse prevalere malgrado tutto.

Certo se esaminiamo di questa mostra i pochi lavori eseguiti da Antonio Caputo due anni fa appena e li confrontiamo con quelli fin ora descritti, dobbiamo concludere che l’artista ha operato in questo biennio un salto qualitativo notevole.

Si veda, della esperienza precedente « Lo sgabello rosso », tutto univoco nello spazio e nel pretesto, quella compitazione lineare, quella semplicità quasi popolare, data non soltanto dalla scelta, ma dalla esecuzione delle immagini. È quanto cammino compiuto, in senso di qualità e di consapevolezza avanguardistica, bene. a suo agio nel clima novo figurativo, rispetto, per esempio, ad uno dei più serrati e felici pezzi di questa mostra, « Non vi è spazio sufficiente per gli uccelli rock »! Si avverte al confronto — e questo è senza dubbio un altro merito del pittore — che fra i due momenti è sempre lo stesso artista che si muove, con la medesima convinzione per il colore, la stessa fiducia nell’immagine definita e completa. Fin da allora Caputo operava nel disegno cromatico, a cucire i contorni delle forme con imbastiture e bordure di refi, a labilizzare piani e spazi con proiezioni di carte da parato, quasi alle soglie dell’ovvio, ma sempre riscattando il quadro per la tensione luministica, per la fiducia nella compiutezza della immagine. La stessa tensione, riscaldata da un concetto più ricco e più articolato delle avanguardie, si trova dunque nel dipinto dal titolo «Non vi è spazio sufficiente per gli uccelli rock», dove i particolari, thermos, mare, scatola rossa, gabbia, sacchetto portafettucce dai cui rossi ciliegia s’apre sbarrato un occhio, scattano imperiosamente, facendo di una improbabile e misteriosa assemblea, una unità suggestiva di cose dipinte.

 

Marcello Venturoli